I referendum hanno perso da tempo la loro funzione: è ora di ripensarli

Il referendum dell’8 e 9 giugno si è consumato senza raggiungere il quorum, come facilmente prevedibile e come ormai consuetudine per i referendum abrogativi, che necessitano di un’affluenza superiore al 50 per cento per essere ritenuti validi. Ormai l’impressione è infatti che tale strumento, sempre più difficile da utilizzare per l’effettiva abrogazione di una legge per via della somma tra l’astensione naturale sempre più elevata e quella strategica, rappresenti solo un modo per conte tra forze politiche, per portare attenzione su temi specifici o provare a ottenere maggiore visibilità: tutte aspirazioni legittime, ma nessuno dei quali rappresenta la funzione originaria e istituzionale dello strumento referendario.
L’affluenza del recente appuntamento alle urne ha rappresentato sicuramente una sconfitta per gli organizzatori, come ammesso anche dal leader della CGIL Maurizio Landini, ma per gridare al successo probabilmente non sarebbe stato necessario il quorum: anche un’affluenza più significativa, dai valori simbolici, avrebbe potuto rappresentare un traguardo valido. Questo spirito è ben dimostrato da una grafica circolata tra i social del PD, che forse ha avuto un effetto un po’ goffo ma fa riflettere su questo punto, in cui il partito rivendica che i sì al primo quesito sono stati 13 milioni e hanno quindi superato i 12 milioni di voti ottenuti dal centrodestra alle politiche del 2022. Messaggio che, senza entrare nel merito del contenuto, mostra come gli obiettivi dei referendum risultino ormai più di natura strategica che istituzionale e legislativa.
Quando si pensa ai grandi referendum che hanno segnato la storia politica italiana, tenendo da parte quello istituzionale del 1946 e quelli costituzionali e considerando perciò solo quelli abrogativi per qui è necessario il quorum, ci vengono in mente prima di tutto votazioni relative a grandi temi, in cui le scelte dei cittadini sono talvolta andate al di là delle indicazioni dei partiti: divorzio, aborto, nucleare, leggi che hanno segnato la politica italiana su temi sentiti in un modo o nell’altro da tutti i cittadini.
Già se torniamo agli albori dei referendum abrogativi, che risalgono a un passato non così remoto, dal momento che il primo, quello sul divorzio, si è tenuto nel 1974, vediamo come la sua funzione, al di là dell’abrogazione o meno di una legge, fosse di pressione intorno a un tema. Nel 1978, infatti, gli italiani furono chiamati alle urne per rispondere su due quesiti, quello sull’abolizione della legge Reale sull’ordine pubblico e quello sul finanziamento pubblico ai partiti, entrambi bocciati in modo netto. La campagna referendaria, promossa dal Partito Radicale, prevedeva in tutto ben otto quesiti: se quattro furono respinti dalla Corte Costituzionale, altri due non si tennero proprio per l’azione legislativa del parlamento che, sotto la pressione del possibile referendum, decise di approvare in tempi celeri la legge Basaglia che chiudeva così i manicomi e una legge che evitò di andare al voto sulla commissione inquirente. La campagna referendaria radicale si rivelò quindi un efficace strumento per portare avanti temi oltre che nelle urne anche nell’opinione pubblica e nelle istituzioni e un modo per creare una nuova alternativa ai partiti di governo, in un periodo in cui il Partito Comunista Italiano perseguiva la politica del compromesso storico di avvicinamento alla Democrazia Cristiana.
Tuttavia, questa formula nel tempo ha prodotto numerosi quesiti che hanno toccato elementi molto tecnici, di scarso interesse per una fetta importante di cittadini, sfociato nel 1990 nel primo caso di referendum che non ha raggiunto il quorum, quando agli italiani furono posti quattro quesiti su caccia e fitofarmaci. L’affluenza si fermò al 43,11 per cento, quando alle politiche di appena tre anni prima era stata di 88,6, in un episodio che mostrò come i referendum potevano essere respinti ma potevano anche fallire. O essere fatti fallire.
Non fu un caso che già l’anno successivo arrivò per la prima volta un invito ad “andare al mare” il giorno di un voto referendario, e non arrivò da una figura marginale della politica ma addirittura da un ex premier e leader del Partito Socialista Italiano, Bettino Craxi. Il quesito, sulla riduzione delle preferenze, superò con tranquillità il quorum, ma ormai iniziava a consolidarsi la tattica di usare l’astensione per far fallire un referendum.
Negli anni successivi, infatti, la partecipazione strutturale al voto da parte degli italiani è scesa: dal 1983 è sotto al 90 per cento, dal 2013 sotto l’80 e nel 2022 è scesa addirittura sotto al 70, fermandosi al 63,9 per cento. Questa astensione strutturale nei referendum si somma facilmente a quella di natura tattica che non ha bisogno di grandi sforzi per rendere non valido il quesito, soprattutto quando la materia della consultazione ha nomi che risultano esoterici e ben distanti da quei grandi temi dei referendum che hanno segnato la storia italiana.
Non è infatti un caso che dal 1995 a oggi l’unico caso di raggiungimento del quorum arrivò nel 2011, quando oltre la metà degli aventi diritto andò a votare ai referendum su acqua pubblica, nucleare e legittimo impedimento: non solo temi molto sentiti dall’opinione pubblica, ma un voto che arrivava a poco tempo dal dramma della centrale nucleare di Fukushima e in un momento di forte impopolarità del governo Berlusconi IV. Una serie di fattori che fanno di questo voto quasi un unicum in tempi recenti.
Così i referendum, che possono arrivare grazie alla raccolta di almeno 500mila firme, facilmente raggiungibili da molte organizzazioni, sono diventati spesso un modo per provare a dare visibilità a un tema o a un movimento politico, nella speranza di ottenere una partecipazione più alta possibile e trovare nuove convergenze ma senza per forza dover raggiungere un quorum che spesso sembra già irraggiungibile in partenza.
C’è però un altro modo per arrivare a un referendum, ovvero la richiesta da parte di almeno cinque consigli regionali, un fatto avvenuto solo una volta, nel caso del voto del 2016 sulle trivelle: un referendum votato da solo il 31,1 per cento degli aventi diritto ma che risulta un caso simbolico. Questo voto, infatti, permise alle forze politiche di iniziare a prendere le misure di una campagna comune contro il governo Renzi in vista soprattutto del referendum costituzionale che si sarebbe svolto il dicembre successivo. Il fatto che non fosse stato promosso da una specifica forza politica, inoltre, permetteva ai vari partiti di poterlo sostenere senza farsi particolari problemi, così come l’assenza di una specifica forza promotrice faceva in modo che nessuno rischiasse di perdere la faccia. Dal punto di vista istituzionale il voto non ha portato a nulla, non essendo stato raggiunto il quorum, ma nel cammino strategico verso il referendum costituzionale del 4 dicembre 2016 ha senz’altro portato i suoi frutti.
Però non è per questo che si fanno i referendum, e se il quorum non si raggiunge praticamente più questo strumento non può diventare un modo per risolvere beghe interne o promuovere un tema o una forza politica, chiamando alle urne milioni di italiani e mettendo in moto la macchina elettorale. Il rischio, infatti, è che finisca per essere percepito come un inutile costo della democrazia ed essere accantonato, privando gli italiani di un prezioso diritto che è stato fondamentale in molte stagioni della politica. Perché il diritto rimanga a essere valido, va aggiornato ai tempi.
Come si può aggiornare questo strumento? Le possibilità non mancano: non esiste una risposta univoca ma iniziare a parlarne seriamente può contribuire a un dibattito che porti alla soluzione di questo problema. Lo strumento del quorum, così come è, è ormai obsoleto: abolirlo totalmente rischierebbe di essere dannoso, perché basterebbe per paradosso il voto di un solo italiano per approvare una legge, e un limite va posto, ma il suo calcolo va rivisto rispetto alle norme attuali.
Sarebbe invece più corretto calcolare il quorum in base alla partecipazione alle elezioni politiche più recenti: una soglia mobile pari alla metà più uno dell’affluenza alle elezioni politiche più recenti, che dunque punti a non calcolare l’astensione strutturale. Prendendo come esempio l’affluenza delle ultime politiche, pari al 63,91 per cento, questo porterebbe il quorum al 31,455 più uno dei voti, mentre se alle prossime l’affluenza dovesse balzare positivamente all’80 per cento, il quorum si sposterebbe al 40 per cento più uno dei voti. Questo sbarramento, infatti, non deve risultare qualcosa di irraggiungibile, ma qualcosa che renda nell’interesse di tutti fare una campagna elettorale così da mostrare quale effettivamente sia il parere degli italiani su tale tema. Se a questo poi si volesse aggiugere una revisione dei criteri di raccolta firme, magari aumentando le sottoscrizioni necessarie alla luce dell’aumento della popolazione italiana rispetto a quando questo strumento è stato istituito e dei nuovi mezzi tecnologici, a partire da SPID e CIE, che possono facilitare le sottoscrizioni, i temi su cui saremo chiamati al voto saranno questioni più sentite dagli italiani, e non quesiti troppo tecnici dai nomi al limite dell’esoterico.
Pensare che rivedere la normativa sui referendum sia qualcosa di secondario o per addetti ai lavori sarebbe un errore. La democrazia, infatti, è una macchina che ha bisogno di una costante manutenzione perché possa sempre funzionare, e trovarne componenti obsolete potrebbe incepparla. Evitiamo allora che a incepparsi siano i referendum e possano anzi tonare a essere uno strumento di democrazia e partecipazione per tutti.