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Il fallimento della retorica (di G. Gambino)

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Lo scontro non è quasi mai tra bene e male, ma tra due concezioni distorte della giustizia, e finché Israele continuerà a escludere ogni forma di autocritica, come fa, continuerà anche a rafforzare proprio chi dice di voler combattere

Nel teatro grande della politica internazionale, il Medio Oriente è il parco giochi preferito dei potenti del mondo (nel caso specifico tutti e tre uomini, tutti e tre anzianotti signori, tutti e tre smaniosi di mostrarsi il bullo più bullo del quartiere). Lo scenario ideale in cui da sempre si intrecciano interessi geopolitici, certo, ma soprattutto retoriche ideologiche unite a battaglie di religione.

Le narrazioni prevalenti spesso pretendono di dividere il mondo in blocchi monolitici: civiltà contro barbarie, democrazia contro terrore, libertà contro oppressione. Ma la realtà, come molto spesso accade, è molto più complessa e ambigua.

Partiamo dalla prima: se è vero che oggi non possiamo fidarci di Khamenei, è ugualmente vero che non possiamo certo fidarci di Netanyahu.

Israele si è ritagliata il ruolo di attore principale nel contenere con ogni mezzo la minaccia nucleare iraniana. Secondo alcuni, Tel Aviv starebbe svolgendo il «lavoro sporco» per conto dell’intero Occidente, colpendo l’Iran dove Usa e Ue non possono, o non vogliono, arrivare apertamente.

Tuttavia, questa narrazione dovrebbe preoccuparci. Se lasciamo che Israele possa abbattere arbitrariamente siti nucleari, assassinare scienziati o lanciare raid in nome della sicurezza globale, allora la comunità internazionale ha il dovere di interrogarsi sul ruolo che vuole delegare a Israele e anche sul suo arsenale nucleare non dichiarato.

La deterrenza unilaterale di Israele, mai sottoposta a trattati internazionali come il Tnp (Trattato di non proliferazione nucleare), è un tabù diplomatico. Che oggi andrebbe spezzato. Perché se davvero si vuole disinnescare l’instabilità regionale, e quindi globale, la logica deve essere disarmante in senso pieno e non asimmetrica. Perché fidarsi di una potenza che non rende conto delle proprie testate nucleari né eventualmente della propria politica estera, peggio ancora se non dichiaratamente espansionista? Una denuclearizzazione del Medio Oriente dovrebbe partire anche da Israele, non solo dall’Iran. E gioverebbe all’intera regione.

Punto due: la continua delegittimazione delle Nazioni Unite, portata avanti con costanza da Israele e appoggiata – più o meno apertamente – da Washington, rappresenta un rischio sistemico. Alcune agenzie internazionali Onu sono diventate bersagli polemici e retorici nel momento in cui hanno criticato il governo di Tel Aviv.

Questo è un problema. Tentare di distruggere la credibilità delle istituzioni nate proprio al fine di mantenere uno status quo di pace, equivale ad alimentare un mondo dove conta solo la forza e quasi mai il diritto.

L’attacco sistematico a questi strumenti, che hanno difetti ma restano l’unico argine all’anarchia internazionale, finisce per avvantaggiare proprio coloro che più hanno da temere dal rispetto delle regole: gli autocrati, i populisti, i mercanti d’armi.

Tre: la visione del mondo secondo Israele, oggi, appare essenzialmente questa: o state con “noi”, cioè con il blocco dei Paesi civili e democratici, oppure state con “loro”, vale a dire Hamas, Hezbollah, Houthi, Iran eccetera: in breve, quello che Tel Aviv definisce l’asse internazionale terrorista e che si basa sul fondamentalismo islamico, dalla cui invasione ideologica e culturale dovremmo difenderci.
Questa retorica, mossa da una superficiale logica binaria, è dannosa e pericolosa. Rifiutarla significa affermare che è possibile combattere con ogni forza il terrorismo islamico senza per questo diventare complici della politica israeliana. Lo scontro non è quasi mai tra bene e male, ma tra due concezioni distorte della giustizia, e finché Israele continuerà a escludere ogni forma di autocritica, come fa, continuerà anche a rafforzare proprio chi dice di voler combattere.

Analoga narrazione in cortocircuito riguarda la legittimità riguardo ciò che viene definito terrorismo. Sono bombe illegittime quelle palestinesi così come lo sono quelle israeliane. In una celebre intervista di metà anni Ottanta, Netanyahu definiva terrorismo il «deliberato e sistematico attacco contro persone innocenti civili per motivi politici». Oggi, a distanza di quasi due anni dal 7 ottobre e a fronte di una risposta sproporzionata ormai incomprensibile, Tel Aviv continua a colpire sistematicamente infrastrutture civili, distruggere ospedali, bloccare gli aiuti umanitari. Uno smacco ulteriore posto che Israele è uno Stato democratico ed è tenuto a rispettare il diritto internazionale. La differenza tra i due “terrorismi” sta nella legittimità che il mondo concede.

Nel bel mezzo di queste narrazioni tossiche, è necessario non più farsi ingannare dalle promesse dei regimi teocratici e dalla retorica dei governi democratici che hanno smarrito il senso della misura. La pace non può nascere dal terrore e nemmeno da una giustizia unilaterale.
In questo primo quarto di Ventunesimo secolo, segnato da tempi bui e incerti, in cui ogni schema è saltato e nulla è più prevedibile, in cui nessuno sembra riuscire a stabilire un senso e un ordine, occorre aggrapparsi al diritto internazionale, più che ai governi.
Fa sorridere pensare che la rielezione di Donald Trump – almeno nella sua conclamata propaganda – avrebbe dovuto portare la pace nel mondo. Oltre sei mesi dopo il suo insediamento, non solo la guerra in Ucraina è ancora in corso, ma la tensione globale si è allargata a nuovi teatri, coinvolgendo più attori, con più vittime e una retorica ancora più incendiaria.

Trump ha accelerato un processo di polarizzazione già in atto, costringendo molti leader mondiali a uscire dal linguaggio diplomatico e a prendere posizione in maniera più netta (forse finanche in Europa). In questo, paradossalmente, ha avuto un effetto dirompente: ha fatto cadere le maschere dell’ipocrisia.

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