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Voci da Israele: cosa pensano i cittadini della guerra contro l’Iran scatenata da Netanyahu

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I missili iraniani piovuti su Tel Aviv la sera del 13 giugno. Credit: AGF

La casa di Deborah è stata distrutta dalle bombe iraniane: “Sostengo la guerra di Netanyahu al 100%”. Rosa invece manifesta da anni contro il premier: “A ottobre mi trasferirò in Europa, non voglio che mia figlia cresca in questo clima”. Ecco cosa pensano oggi i cittadini dello Stato ebraico

Nel mese di giugno del 2017, un grosso orologio è stato installato in piazza della Palestina nel centro di Teheran per segnare il tempo che manca alla «distruzione di Israele». Nonostante ciò, in questi tesi e storici giorni di guerra in Medio Oriente, in Europa ancora si discutono ampiamente le intenzioni, nonché le capacità, del regime iraniano di mettere in atto il suo anelato progetto nucleare. Khamenei, dunque, intende davvero cancellare lo Stato ebraico? Dispone realmente della bomba atomica? E ancora, come dovrebbe reagire Israele alla presunta minaccia? Intanto le lancette del grosso orologio corrono, inesorabili. Tic Tac. 

“Conflitto esistenziale”
«Alle ore due e mezza di notte è suonata la sirena», racconta Deborah Fait, la cui casa Rechovot – circa 20 chilometri a sud di Tel Aviv – è stata distrutta da un missile balistico iraniano. «Mi sono svegliata, seduta sul letto e non ho fatto in tempo ad alzarmi e raggiungere il bunker, che ho sentito un rumore terribile provenire dal soggiorno. Quando ho aperto la porta, non potevo credere ai miei occhi: il mio soggiorno non esisteva più. È stato completamente devastato dal crollo del soffitto. In un attimo, ho perso tutto. La mia vita è rimasta sepolta sotto centimetri di macerie di cemento, legno e gesso». 

Fait, nata a Trieste nel 1941, è una giornalista italiana naturalizzata israeliana. È stata presidente nazionale della Federazione Italia-Israele fino al 1995, dopodiché ha deciso di trasferirsi nello Stato ebraico. Oggi continua la sua campagna per l’informazione, scrivendo per il sito web Informazionecorretta.com e per varie testate italiane. «Devo essere sincera, non ho avuto paura», confida la giornalista. «Il panico era talmente forte, che non ho provato paura. Ero senza fiato. Sono riuscita a uscire dall’appartamento, attraversando la porta scardinata, e sono scesa giù in giardino, ancora sotto shock, insieme ai miei vicini. Ora abito a casa di mio figlio, in attesa di potermi trasferire nuovamente in un appartamento sicuro». 

Nello stesso attacco a Rechovot nel quale è andata distrutta la casa di Deborah Fait, è stato distrutto anche l’edificio adibito alle ricerche avanzate di cure per il cancro dell’Istituto Weizman per la Scienza: uno dei centri di ricerca più importanti del mondo, nonché focolare di svariati premi Nobel israeliani. Oltre alla distruzione di attrezzature avanzate, quali costosissimi microscopi di ultima generazione, un danno stimato due milioni di shekel (500mila euro, ndr), tutti i traguardi scientifici e medici raggiunti fino ad oggi sono andati in fumo. Una disgrazia non solo per Israele, ma per tutti i malati di cancro del mondo. 

«Nonostante io abbia pagato un caro prezzo personale, sostengo la guerra d’Israele contro il regime iraniano al cento per cento», afferma Fait. «D’altronde, è dal 1979 che l’Iran minaccia di distruggere Israele e Israele non poteva aspettare ulteriormente. Questa è una guerra esistenziale.  Ricordiamolo: Israele è un puntino in Medio Oriente che deve difendersi da masse di nemici. Io personalmente sono disposta a tutto purché si possa vivere qui in pace. Non più sopravvivere, ma vivere proprio. Vivere senza avere la spada di Damocle di Khamenei puntata perennemente al collo. Quale Paese può vivere così? L’Italia può forse vivere così? Certo che no. Nessuno può». 

“Io, pacifista”
La voce di Deborah Fait rappresenta oggi il pensiero della maggior parte degli israeliani, ma vi è anche una minoranza che la pensa diversamente. Rosa, per esempio, neo-mamma di 30 anni, la pensa diversamente. «Partiamo da un presupposto fondamentale: l’Iran è un nemico d’Israele e rappresenta per lui una vera minaccia esistenziale», tiene a precisare. «Sono pacifista, certo, ma non ingenua. Non credo assolutamente che il regime degli ayatollah sia interessato a trattare con Israele o che desideri arrivare a un accordo comunque. Khamenei vuole distruggerci, punto. Detto ciò, credo che il tempismo sia tutto nella vita e che il tempismo dell’attacco a Teheran sia sbagliato e non impellente. Credo che Israele e l’intero Medio Oriente siano ancora spossati dall’indicibile 7 Ottobre e tutta la terribile guerra a Gaza che ne è succeduta. Il quadro geopolitico nel quale viviamo è già abbastanza disastroso, e non va peggiorato ulteriormente».

Rosa ha una doppia identità: di giorno lavora come insegnante di letteratura in una scuola liceale a Haifa, di sera invece scende in piazza e diventa attivista contro il governo Netanyahu. «Non ho alcuna fiducia nel nostro premier, zero», racconta. «Ho cominciato a manifestare contro il suo governo nel periodo della riforma giudiziaria, e da allora non ho mai smesso. Non credo nelle sue parole e non mi sento rappresentata degnamente». 

L’attivismo politico ha condotto Rosa a prendere una decisione difficile: il prossimo primo di ottobre, lei, suo marito, la loro bambina e il loro cane si trasferiranno in Europa. «Dopo il 7 Ottobre ho perso la speranza e non voglio più crescere la mia bambina in questo clima di guerra», confessa abbattuta. «Amo Israele, è la mia unica casa, ma sono esausta. Il giorno in cui crollerà il governo di Netanyahu e tornerà a governarci un leader valido, un leader vero, farò subito rientro a casa. E non la lascerò mai più». 

Costruire ponti
In Israele vi è oggi una grande comunità di ebrei iraniani lacerati dalla guerra che coinvolge le loro due patrie. David Motai, giornalista israeliano nato e cresciuto in Iran, è uno di loro. «A me interessa il destino dello Stato d’Israele e del popolo iraniano, del suo regime invece non m’importa assolutamente nulla», spiega con fare pragmatico. «Non ho alcun sentimento per questo Iran, semplicemente perché non è il vero Iran. Non è il mio Iran. Non è il Paese libero e meraviglioso nel quale sono cresciuto. In Iran vige una dittatura assoluta. Il regime di Khamenei tiene in ostaggio il suo popolo e Israele si batte anche per la sua liberazione». 

Motai, che è in costante contatto con decine di iraniani che hanno deciso di non lasciare la loro terra nonostante l’opprimente regime, non risparmia critiche a quella fetta di mondo che si fa ambasciatrice dei sacri diritti umani, ma non esita a condannare l’attacco israeliani contro il regime totalitario. 

«Sento nel mondo nuove voci che inspiegabilmente osannano gli ayatollah, e provo un senso di disagio e di vergogna profonda», conferma. «Proprio coloro che rivendicano la democrazia, demonizzano oggi Israele a favore di un regime folle e totalitario. Ma siamo impazziti? Sappiamo di cosa è capace la repubblica islamica dell’Iran? Conosciamo davvero i suoi piani di distruggere Israele, di distruggere l’America, di impadronirsi dell’Occidente? Sono loro i nostri paladini? Non a caso, mentre molti europei fanno oggi il tifo per i tagliagole, gli stessi iraniani sostengono Israele e condannano la loro leadership». 

Democrazia contro dittatura, secondo il giornalista. Una battaglia, a detta sua, che deve avere un lieto fine: Motai ha già programmato la sua vita dopo la caduta del regime. «Il giorno in cui decollerà il primo volo Tel Aviv-Teheran, io ci sarò», racconta emozionato. «Fungerò da ponte tra i due popoli. Mostrerò la vecchia vera Iran a chi non l’ha conosciuta, e la unirò per sempre all’unica democrazia del Medio Oriente: Israele. Senza regimi, senza totalitarismi islamici, senza terrorismo, si prospetta un futuro di pace. Ne sono certo».

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