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Home » Esteri

Il mondo in fiamme: così la guerra di Israele e Usa all’Iran ha cambiato l’ordine mondiale

Immagine di copertina
Credit: AGF

Dalle macerie di Gaza ai cieli di Teheran, dallo spettro nucleare al controllo degli Stretti strategici: la fine dell’illusione di un ordine unipolare rimette al centro la logica del più forte, dove le alleanze sono ormai variabili e ogni pace è solo una tregua armata

Quando nei prossimi anni ci guarderemo indietro e proveremo ad analizzare quanto sta succedendo alle relazioni internazionali, qualcuno dirà che l’attuale disordine mondiale, o meglio, la transizione dal tentativo di creare un mondo unipolare guidato dagli Stati Uniti all’emergere delle aspirazioni delle nuove ed ex superpotenze come Cina e Russia, è cominciato con la pandemia di Covid-19. Altri andranno indietro fino alla caduta del Muro di Berlino del 1989 o, forse, ci sarà chi ricorderà l’11 settembre 2001 e i disastri della «guerra al terrorismo». Magari i più ferrati in economia citeranno le grandi crisi del 2008 e del 2011 e le loro conseguenze sull’inflazione dei prezzi alimentari, alla base della miccia che accese le cosiddette «Primavere arabe». Ci sarà, invece, chi andrà più avanti fino all’annessione russa della Crimea nel 2014 o al 24 febbraio 2022, giorno dell’inizio dell’invasione dell’Ucraina da parte di Mosca. Qualcun altro indicherà, infine, il 7 ottobre 2023 e gli attentati di Hamas e della Jihad Islamica in Israele e la sanguinosissima reazione che incendia ancora il cosiddetto Medio Oriente.
Qualunque data sarà fissata, in modo egualmente arbitrario, come l’inizio di questo periodo storico, è innegabile come ciascuno degli eventi innescati dalle tragedie sopracitate sia parte di un continuum più ampio. L’incendio che infiamma il mondo non è cominciato il 7 ottobre 2023 né il 24 febbraio 2022 e non finirà, checché ne dica il presidente Donald Trump, con una pace che metta fine agli attacchi degli Stati Uniti all’Iran. Se non sappiamo come andrà a finire, possiamo però indicare chiaramente le forze ormai schierate in campo.

La via della destabilizzazione
I raid Usa sui siti iraniani di Fordow, Natanz e Isfahan, così come la settimana di attacchi condotti da Israele contro l’Iran è parte di un più ampio conflitto che da anni vede contrapporsi Tel Aviv, Washington e gli alleati arabi degli Stati Uniti da una parte e Teheran e il suo cosiddetto “Asse della Resistenza” dall’altra. Al di là di ogni considerazione umanitaria, senza voler paragonare un attentato a una guerra convenzionale, ancorché condotta in spregio del diritto internazionale, e seguendo le rispettive narrazioni, un filo rosso lega gli attacchi terroristici del 7 ottobre 2023 ai bombardamenti israeliani sull’Iran del 13 giugno 2025 ed è la volontà di impedire la stabilizzazione della regione, in un senso o nell’altro.
Se gli attentati di Hamas e della Jihad Islamica e il conseguente massacro compiuto da Israele e ancora in corso nella Striscia di Gaza hanno di fatto impedito la firma da parte dell’Arabia Saudita degli Accordi di Abramo, normalizzando le relazioni tra Riad e Tel Aviv in nome degli affari più che di una soluzione equa della questione palestinese, il nuovo fronte aperto dal premier israeliano Benjamin Netanyahu contro la Repubblica islamica due giorni prima dell’ultimo round di colloqui diretti sul nucleare tra Washington e Teheran ha cancellato la possibilità di raggiungere un accordo che avrebbe rimesso sotto controllo il programma nucleare iraniano in cambio di un alleggerimento delle sanzioni all’Iran.
Sebbene il coinvolgimento iraniano diretto negli attentati del 7 ottobre non è mai stato provato, Teheran, che ha finanziato Hamas e i gruppi armati palestinesi nella Striscia, ha raccolto i frutti degli oltre 1.100 omicidi compiuti quel giorno. Mai la Repubblica islamica avrebbe potuto permettere una saldatura ufficiale del fronte tra Israele e il più grande Stato arabo del Golfo, in nome di un ordine regionale guidato dagli Stati Uniti. Al contempo Tel Aviv, che ha passato l’ultimo anno e mezzo a smantellare a suon di bombe e massacri gli alleati dell’Iran nella regione, non avrebbe potuto sopportare una pacificazione tra Teheran e Washington, in nome del libero commercio di petrolio tanto caro a Donald Trump.

La caduta dell’impero persiano
Così, dopo gli attentati di Hamas, Israele ha reagito aprendo ben sette fronti: Gaza, Cisgiordania, Libano, Yemen, Siria e Iraq. Il massacro di oltre 60mila palestinesi nella Striscia in nome della cancellazione di Hamas non ha raggiunto l’obiettivo nominale dell’operazione ma, al contrario, Tel Aviv ha smantellato quella che Teheran considerava la sua «difesa avanzata» nella regione.
«Non dobbiamo limitarci all’interno dei nostri confini. È nostro dovere riconoscere e affrontare le minacce che si celano oltre le nostre mura», spiegò l’ayatollah Ali Khamenei nel 2019 e così fu fatto. Il regime di Bashar al-Assad in Siria, il gruppo armato sciita Hezbollah in Libano, gli Houthi in Yemen e la galassia di milizie componenti le cosiddette Forze di mobilitazione popolare in Iraq erano tutte considerate parte di una rete, se non di agenti di alleati (a Tel Aviv parlerebbero di complici), su cui si fondava il sistema di potere legato alla Repubblica islamica. Un fronte pesantemente indebolito da Israele nel corso dell’ultimo anno e mezzo con l’annichilamento delle capacità di attacco dai Territori palestinesi, con l’azzeramento dei vertici e delle risorse militari di Hezbollah e con la caduta del regime di Damasco. Al fianco di Teheran restano ormai soltanto le milizie irachene che, memori della lezione libanese, non si sono finora impegnate a fondo nel contrastare la sanguinosa reazione di Tel Aviv, e gli Houthi in Yemen, che però possiedono un potere di ricatto di portata globale, tanto da aver avuto il dubbio onore di essere stati tra i primi obiettivi bersagliati dagli Stati Uniti dopo il ritorno di Donald Trump alla Casa bianca. Dopo i raid simbolici dell’Iran sulle basi americane in Iraq e Qatar, altre forze vicine a Teheran potrebbero essere spinte ad attaccare le truppe statunitensi presenti nella regione, anche in Siria, Giordania, Arabia Saudita e Bahrein, mentre il gruppo yemenita ha già mostrato la propria capacità di incidere sul commercio internazionale. 

Colli di bottiglia
La strategia del conflitto è infatti inestricabilmente legata alla geografia della regione. Come l’Iran controlla lo Stretto di Hormuz, da dove transita un quinto del petrolio e del gas naturale mondiali, così gli Houthi possono minacciare la navigazione nello Stretto di Bab el-Mandeb, all’ingresso meridionale del Mar Rosso verso il Canale di Suez, da dove passa almeno il 10 per cento del commercio globale. Insomma il fronte è anche economico e non solo militare.
Tanto che, dopo gli attacchi diretti degli Stati Uniti ai siti nucleari iraniani, gli Houthi hanno annunciato la ripresa delle operazioni sospese dopo il cessate il fuoco raggiunto con Washington, obbligando la missione militare europea Aspides, schierata nell’area, ad avvisare i vascelli con interessi statunitensi e israeliani a evitare il transito in questo tratto di mare. Al contempo, il parlamento di Teheran ha approvato la richiesta di bloccare Hormuz, una decisione, la cui attuazione spetta però ai Pasdaran, che, forti di una giustificazione legale interna, si riservano il diritto di minacciare di catapultare nella catastrofe i mercati energetici internazionali, in uno scenario che saprebbe comunque di omicidio-suicidio vista la dipendenza della Repubblica islamica dalle esportazioni petrolifere. Basta però la pistola puntata alla tempia dei prezzi per gettare nel panico il mondo e soprattutto un’inconcludente Europa, la cui iniziativa di dialogo degli EU3 a Ginevra è stata completamente ignorata dalla Casa bianca e superata dai raid statunitensi del 22 giugno scorso. Il Vecchio continente però non è l’unico spettatore interessato.

L’era della proliferazione
La “lezione iraniana” (e ucraina) potrebbe rivelarsi particolarmente importante per altri attori della regione, in primis le medie potenze come Turchia, Arabia Saudita ed Egitto. Sebbene tutte, a vario titolo, legate agli Stati Uniti, in un mondo dominato dalla dottrina della «Pace attraverso la forza» propagandata da Trump e Netanyahu, i governanti di Ankara, Riad e del Cairo non potranno fare a meno di chiedersi a quale destino andrebbero incontro in caso di divergenze con una superpotenza così aggressiva. L’unico rimedio, come sembrerebbero mostrare i casi dell’Ucraina e dell’Iran, potrebbe essere proprio il nucleare. Rinunciare alle atomiche come ha deciso Kiev negli anni Novanta e non svilupparle per tempo come Teheran, potrebbe essere il ragionamento, mette ciascun regime della regione a rischio di essere abbattuto, a differenza di chi, come la Corea del Nord e il Pakistan, si è dotato delle armi nucleari. Insomma la guerra preventiva per «autodifesa» invocata prima da Israele e poi dagli Stati Uniti per impedire all’Iran di costruire atomiche non solo viola il diritto internazionale ma potrebbe addirittura aumentare la proliferazione nucleare nel resto del mondo, creando anche nuovi paradossi.
Da quando Vladimir Putin ha invaso l’Ucraina, uno dei principali timori è stata la possibilità di un incidente alla centrale nucleare di Zaporizhzhia, che rischia tuttora di essere bersagliata da missili e droni lanciati dalle due parti in conflitto, con potenziali conseguenze catastrofiche per il diritto internazionale e l’ambiente. Il 22 giugno però sono stati deliberatamente centrati tre impianti atomici in Iran, senza che si levasse alcuna voce contraria. La stessa Russia, colpevole di aver violato la Carta delle Nazioni Unite invadendo un Paese vicino e procedendo a una serie di annessioni territoriali, ha criticato l’intervento statunitense perché in violazione del diritto internazionale. Sviluppi che farebbero sorridere se non ci trovassimo di fronte a una tragedia, che ha però effetti su tutto lo scenario globale.

Nuovi equilibri
L’attacco all’Iran e la prospettiva di un cambio di regime a Teheran cambiano infatti gli equilibri internazionali. Malgrado i trattati, le esercitazioni comuni e gli scambi di tecnologia, anche militare, con Mosca e di materie prime con Pechino, né la Russia né la Cina hanno apertamente difeso i loro alleati della Repubblica islamica come invece hanno fatto gli Stati Uniti e le forze del Regno Unito, della Francia e dei Paesi arabi di fronte ai lanci di missili iraniani contro Israele. Non esiste quindi, almeno per ora, alcun ordine (figuriamoci un’alleanza militare!) alternativo al cosiddetto “Occidente” dominato dagli Usa, capace di tutelare i portatori di altri interessi.
Al contrario, il presunto fronte Brics+ procede in ordine in sparso, con il Cremlino di Vladimir Putin che critica ma flirta con gli Usa, ribadendo nelle stesse ore dei raid americani che l’intera Ucraina è russa, il Brasile di Lula e l’India di Narendra Modi che partecipano come osservatori al G7 in Canada e gli Emirati Arabi che chiedono la de-escalation ma non si schierano certo al fianco di Teheran. In questo scenario però, il convitato di pietra cinese ha un suo ruolo da giocare. Forte dei suoi interessi energetici nella regione, Pechino, come già avvenuto nel marzo 2023, mediando tra Riad e Teheran, si presenta infatti come una “potenza responsabile”, l’unica a invocare il rispetto del diritto internazionale. Non è detto però che una “pax cinese” sia più economica di quella americana.
Ma se in un colpo solo, negoziando e bombardando, Trump ha definitivamente seppellito la credibilità Usa e un diritto internazionale ormai non rispettato più da nessuno, la mancanza di un obiettivo chiaro, oscillando un giorno tra la fine del programma nucleare iraniano e il cambio di regime a Teheran, così come la «denazificazione» dell’Ucraina per la Russia di Putin, significa solo una cosa: il ritorno alla logica del più forte.

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