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Home » Esteri

Il doppio inferno degli iraniani sotto le bombe: le testimonianze raccolte da TPI

Immagine di copertina
Credit: AGF

Teheran è isolata. Internet bloccato. I Pasdaran ossessionati dalle spie. Ma da Mashhad a Isfahan, da Shiraz ad Arak, chi è al sicuro festeggia. Per le strade però si rischia la vita: se non per i raid per gli arresti. Ecco cosa ci ha raccontato chi lotta contro il regime

La benzina è agli sgoccioli. Gli sportelli bancomat, i pochi che funzionano, fanno scivolare nelle mani di chi tenta di prelevare contanti solo piccoli tagli e i conti online non sono accessibili, perché la rete Internet è paralizzata. Comunicare è un lusso. Avere una meta alternativa verso cui andare, anche. Teheran brucia. Ma per scappare servono tre cose: un’auto con il pieno di carburante, soldi e un contatto. La guerra in corso, con l’Iran da una parte e l’asse Israele-Usa dall’altra, ha diviso la popolazione iraniana in tre categorie e altrettanti punti d’osservazione: chi si trova in altre città e cerca di captare notizie (spesso senza successo); chi è riuscito a fuggire dalla capitale e chi ci è rimasto intrappolato dentro. Perché a Teheran, come in tutto il territorio, i bunker per la popolazione non ci sono: l’unica indicazione che i residenti ricevono è di rifugiarsi all’interno delle moschee o di restare chiusi nelle case. Anche perché fuori, per le strade, l’inferno è doppio: ci sono i bombardamenti e ci sono i militari che perquisiscono, confiscano cellulari, arrestano chi viene visto girare video o scattare fotografie. La caccia a spie e infiltrati è diventata ancora più serrata.

Chiusi in casa
Morteza fa parte di coloro che a scappare neanche ci hanno provato: sapeva di non avere chance. Nello scantinato in cui si è rifugiato non filtra luce, ma per lui è meno dura di altri perché lì sotto, negli ultimi anni, ha trascorso gran parte del suo tempo: «Sono abituato, facendo parte della resistenza, questa è la nostra seconda casa», racconta a TPI. «Certo: prima delle bombe a casa a dormire ci tornavo, ora esco da qui solo per procurarmi del cibo. Siamo molto angosciati, è inutile nasconderlo: siamo passati dalla paura di finire forse in carcere alla paura di morire, perché è chiaro che a Teheran, adesso, nessuno è al sicuro». La capitale dell’Iran – una metropoli di 12 milioni di abitanti che supera i 15 milioni nei giorni lavorativi – è bersaglio del maggior numero di attacchi perché rappresenta l’epicentro delle sedi militari, dei palazzi governativi e delle residenze di generali e vertici dei Guardiani della rivoluzione, ma i palazzi non si trovano in posti isolati: sono in aree estremamente urbanizzate. «Ci stiamo adattando, ma quello che vediamo non ci piace». Quello che vedono Morteza e il suo gruppo di attivisti sono i civili morti, le vite dei sopravvissuti stravolte, il cibo e l’acqua che scarseggiano, gli ospedali colpiti e le vittime che aumentano. «Questa è la guerra. E la guerra non ha mai portato benessere, anzi: rischia di essere controproducente. Non perché si diventi pro-regime, ma perché stanno bombardando casa nostra: con l’escalation militare, la Guida suprema Ali Khamenei, blindato nel suo bunker, ha fatto sapere che pur di non arrendersi è disposto a ridurre l’Iran in cenere».

La posta in gioco
La voce è intermittente, ma il tono arrabbiato è inconfondibile, esattamente come quello della rappresentante di un altro gruppo di oppositori al regime, basato nel pieno della zona rossa, nella parte più a sud della città. Lei si fa chiamare Fatemè, uno dei nomi femminili più diffusi: con l’intensificazione dei controlli, esporsi direttamente la metterebbe in pericolo. «Questa guerra rischia di non fare neppure cadere il regime degli ayatollah e a rimetterci, alla fine, sarà la popolazione: la storia dell’Afghanistan è emblematica», dice a TPI. Ecco perché, subito dopo, l’attivista parla di cortocircuito: da un lato c’è l’angoscia della guerra, dall’altro la speranza per la possibile fine del regime: «Con questo attacco, e soprattutto con l’ingresso palese dell’America nel conflitto, siamo nel paradosso di dover scegliere tra rimanere prigionieri nelle nostre case, sotto l’oppressione del governo teocratico sia dal punto di vista delle libertà sia dal punto di vista economico, oppure perdere le persone care, vedere la nostra terra distrutta e ricevere indietro solo le macerie senza la certezza di essere poi liberi. Molti parlano delle battaglie per i diritti, ma è bene non confondere le cose. Qui nessuno crede alla favola che Netanyahu e Trump stiano bombardando per aiutare la resistenza, altrimenti lo avrebbero fatto prima. Stanno agendo solo per interessi e quel che ci chiediamo è se a noi toccherà passare da un regime manifesto, come quello attuale, a un regime occulto futuro. Tutti esultiamo per la morte dei generali che rappresentavano il braccio armato del regime, ma la nostra gioia ha ragioni ben differenti rispetto a quelle di Israele e Usa». Insomma, per Fatemè, l’altro rischio che questa guerra trascina con sé è quello di un nuovo colonialismo, perché «nessun attacco bellico straniero farà mai davvero qualcosa per il bene di un altro popolo, lo farà solo se la posta in gioco è conveniente. E il destino di questa guerra è purtroppo nelle mani di potenti che si sentono onnipotenti».
Basti pensare che nei soli primi sei giorni di guerra, a Teheran sono state arrestate circa cinquecento persone: «I pasdaran sono ossessionati: pensano che Israele abbia tracciato i cellulari per individuare gli obiettivi da eliminare», ci conferma Esan, un militare dell’esercito iraniano che, da anni, cerca di aiutare gli attivisti. «Al momento, la sorveglianza maggiore è concentrata nelle strade e attorno alle prigioni per evitare che i dissidenti possano fuggire e organizzare una rivolta facendo asse con il Mossad. E sempre per questa ragione sono aumentate anche le esecuzioni».

Tra gioia e disperazione
Chi è fuori dalla capitale sta vivendo il conflitto in modo diverso: «I bombardamenti ci sono anche a Tabriz, ma sono più sporadici e mirati», confessa a TPI Adel, un professore universitario in pensione che ha vissuto «la guerra più lunga»: quella tra Iran e Iraq. «Questo conflitto, però, è più pericoloso: è una prova di forza, nessuno vuole cedere. Non intravedo neppure la possibilità che Khamenei possa fuggire in esilio: si era preparato la fuga in Venezuela, dove ha aperto conti correnti e acquistato ville, ma hanno bombardato tutti gli aeroporti. Ormai è: o vinco o sacrifico tutto, perché non ha più nulla da perdere».
Chi è riuscito a fuggire da Teheran si sente perso: «Di notte non riesco a dormire», esplicita Laleh. Ha 24 anni, è una studentessa di Scienze politiche e facendo l’autostop è riuscita a uscire dalla capitale, dove sono rimasti invece i suoi nonni. «Con il blocco di Internet non si capisce cosa stia realmente accadendo. Nessun media fornisce informazioni affidabili. Non sono ottimista: stanno bombardando anche università, ospedali e prigioni. Il pensiero di cosa potrebbe scaturire da uno scontro fra regimi estremisti mi terrorizza».
Da Mashhad a Isfahan, da Shiraz ad Arak, chi è relativamente al sicuro non nega di festeggiare. «Sarebbe ipocrita dire che non stiamo celebrando lo smantellamento della rete di comando dei pasdaran», rimarca Nader, che ha 56 anni ed è tra i camionisti che nelle settimane precedenti alla guerra hanno scioperato per giorni a causa dell’inflazione che ha portato la popolazione alla fame. Adesso si trova ad Isfahan, dove i missili Usa hanno colpito il sito nucleare: «Abbiamo paura di inalare sostanze tossiche. Non sappiamo quali materiali pericolosi contengano queste basi. La situazione rischia di degenerare». La solitudine, il terrore, la disperazione. La guerra.

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